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Marcello Riccioni

Una bugia allo specchio

Anoressia trappola dell’anima

12.00

Categoria:
Formato: 120x190x8 mm - pp. 128 - illustrato - copertina con alette plastificazione opaca
Edizione: 2009
ISBN: 978-88-8486-365-2
Product ID: 2456

Descrizione

Non sono un medico. I miei alunni mi chiamano professore, ma forse sarebbe il momento di modificare questa nomenclatura. Insegnanti, non professori o, ancor più, docenti. Troppa confusione in questi ruoli. Dico e affermo che oggi l’insegnante è colui che realmente ha una missione profusa di responsabilità. È un lavoro divertente, poco fisico, certamente unico snodo di educazione che possa consegnare alla generazione a venire una mobilità critica traducibile in un processo di salvazione.
Detto questo, una cosa non riesci a toglierti dalla testa. E sono i pensieri degli adolescenti che cresci tutti i giorni e con loro dimentichi quello che esiste dentro di te perché ciò di cui hanno bisogno è qualcosa di più reale e immediato.
Ciò che con forte convinzione affermo è che il bene condiviso tra un genitore ed un figlio spesso si spiega e si libera attraverso dei sensi di colpa. L’adulto non domina una misura specifica di ciò che può essere un figlio. A volte si va oltre il limite della normale condivisione. Ci si sente inadeguati e si concede quel troppo che l’adolescente non riesce a digerire in toto. Non è vero, da un punto di vista educativo, che il troppo bene non è mai troppo, che si è sempre in debito d’amore nei confronti dei figli, quegli stessi ai quali poi si rinfaccia di non restituire ciò che avevano a loro tempo ottenuto. Quanti genitori sono pronti allo stacco, al fatto di considerare l’idea che un giorno quel bene concesso rimarrà uno spazio, comunque importante, nella mente dei figli!
Ciò che cercherò di arrangiare è l’idea di un rapporto destabilizzato, il convincimento che davvero non si possa crescere da soli, che la maturazione di un adolescente può avvenire solo quando vi è un esempio, tanto quanto stabili punti di riferimento. Chi è educato deve poter contare sull’apporto acuto di chi si sta accorgendo della sua presenza. Tutto parte dal fatto della comunicazione tra ciò che siamo e ciò che gli altri vorremmo fossero. Scontato il fatto di crearsi una rete di individualità pronte al confronto, quello che maggiormente oggi preoccupa è la mancanza, all’interno di questi micro rapporti, di una consistenza critica. I tentativi di creare delle tribù sono costantemente in aumento. E tanto maggiori divengono questi mondi di comunicazione, altrettanto vaste sono le intolleranze.
Ciò che tratterò come esperienza personale, riguarda l’anima malata e non il corpo, specchio bugiardo dell’immagine sincera. Sentirsi intrappolati significa non ripescare il reale senso del valore. Inutile, credo, ricercare mille circostanze o mille motivi per essere anoressici o anoressiche, bulimici o bulimiche. Utile, ma massacrante, diviene la ricerca di consegnare nuove motivazioni, o vecchie idee in un contenuto che non le ricerca, che possano dare speranza e semplici convincimenti di verità. Crisi psicologiche che emergono proprio in conformità di una realtà che non esiste, luoghi di massa in cui tutti dichiarano tutto e assommano l’intero non potendo poi digerire quell’ogni perché troppo pesante da sopportare. Così le colpe che inevitabilmente demonizzano la parte prima della società malata, quella famiglia che, quando brava e comprensiva, detiene sempre il sacco delle colpe.
È un po’ di tempo che sentivo l’esigenza di stendere questi pensieri, come da circa un anno sono impegnato nell’organizzazione di una mostra dedicata proprio all’anoressia. Non è stato un mondo facilmente capibile e nemmeno comodamente condivisibile. È stata una esperienza di vita che oggi mi guarderei bene dal rifare in conformità del fatto che la parte più difficile da sviscerare è qualcosa di realmente complesso da sciogliere. Tanta energia e tanto desiderio di stare bene, ragionamento, comprensione e senso ironico, sarcasmo, desiderio di ridere anche quando la drammaticità di una situazione ti porterebbe a mollare tutto. Mettere in gioco i tuoi desideri e i tuoi problemi, i tuoi pensieri e le tue perplessità; umanizzare il più possibile per poi, alla fine, avere la fortuna di agganciare la strada che porta alla comprensione.