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Bernhard Casper
A cura di: Francesca Nodari

Emmanuel Levinas. La scoperta dell’umanità nell’inferno dello Stalag 1492

Fare memoria/Filosofi lungo l’Oglio – 6

INSTANT BOOK

5.00

Categoria:
Collana: Fare memoria/Filosofi lungo l'Oglio - 6
Formato: 110x155x4 mm - pp. 72 - copertina semirigida
Edizione: 2013
ISBN: 978-88-8486-564-9
Product ID: 2840

Descrizione

FARSI-OSTAGGIO-PER-L’ALTRO
Il senso del fare memoria acquisisce nelle pagine di questo saggio denso e illuminante di Bernhard Casper tutto il valore della sua portata. Un valore che, colto nel suo stesso darsi, è riscattato da un intendimento che, se fosse lasciato soltanto nei confini di un ego trascendentale e totalitario, rischierebbe di non essere inteso e agito fino in fondo, esposto come sarebbe al pericolo sempre possibile di decretarne la vanità. L’Autore prende fenomenologicamente avvio dal «Memorial pour l’Avenir», che si trova in Costa Azzurra, lungo l’autostrada che si percorre solitamente per andare in vacanza. Che cosa ci dice quel monumento e in che termini si può parlare di «Monumento al futuro»? Esso, con la sua stessa presenza, ha una funzione duplice: per un verso ricordare un terribile incidente stradale nel quale persero la vittima molte persone, per l’altro si erge, se così si può dire, a monito perché quello che è successo non possa più accadere, invitando chiunque passi da quelle parti alla prudenza nella guida. Interrogandoci su questo monumento capiamo come «il fare memoria può ottenere un senso di questo tipo e che avrà una ricaduta sulla mia vita intera. Esso infatti consiste, su un piano molto generale e formale, nel fatto che ci rivolgiamo a un passato, per amore del nostro futuro». Ed è con questo intendimento che Casper invita a guardare alla Shoah, regalandoci anche ricordi molto personali – certamente non facili da esplicare per il dolore, che nel loro stesso essere richiamati, provocano. L’Autore rammenta i suoi anni d’infanzia a Berlino, siamo nel 1937-38 – quegli stessi anni in cui si sarebbe assistito alla promulgazione delle leggi razziali in Italia. Casper narra di negozi sulle cui vetrine campeggiava la scritta: «Gli ebrei sono indesiderati» e, in particolare, fa memoria di quella volta in cui, nei pressi di un ristorante, notò insieme ai genitori, un vecchio che non smetteva di tossire e che chiese se qualcuno potesse portargli un bicchiere d’acqua. Lui, in quel ristorante non poteva avere accesso per la sola ragione che era ebreo. Il padre di Casper non esitò ad aiutarlo, ma non poté evitare che dei passanti gliene chiedessero conto, ricordandogli che era proibito avere a che fare con «certe persone». Di un ebreo lituano, naturalizzato francese, tra i maggiori filosofi del Novecento, Emmanuel Levinas, tratta Casper in questo saggio. E lo affidando la sua riflessione all’esperienza vissuta da Levinas stesso durante i cinque interminabili anni di prigionia nello Stalag 1492, all’interno di un campo per prigionieri speciali, situato nella regione di Hannover. Di ciò che provò, di ciò che sentì in quella condizione, il filosofo ne ha scritto nei preziosissimi Carnets de captivité pubblicati insieme ad altri inediti soltanto nel novembre 2009 a Parigi. Di qui, come nota Casper, l’estrema importanza di questi frammenti proprio perché svelano la capacità del filosofo che, con i propri strumenti, cerca di capire che cosa sta succedendo, che cosa si può dire o fare dinanzi a un dolore così grande, quale senso, se c’è, si può scovare in un clima fatto di privazioni, di fame, di freddo, di paura, di nostalgia, di impotenza. L’unico elemento a favore di questi prigionieri che, a differenza dei numerosissimi fratelli israeliti venivano condotti direttamente alle camere a gas, consisteva nel fatto che avevano ancora del tempo a disposizione. Del tempo da impiegare e da far fruttare: «Se per il deportato, il martirio era immediato, il prigioniero aveva il tempo di prepararsi. Tra l’uomo e la sua sofferenza, vi era come un intervallo che consentiva di prendere una posizione nei riguardi del dolore prima di esserne catturati e dilaniati. In questo intervallo, si insinua la meditazione; è là che la vita spirituale ha inizio». E non è certo casuale che Levinas richiami il racconto biblico della legatura di Isacco e, in particolare, fissi l’attenzione sui tre giorni impiegati dai due per raggiungere il monte Moria, interrotti soltanto dal botta e risposta dell’ultima tappa, con Isacco che chiese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?», e Abramo che gli replicò: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!» (Gen 22, 7-8). Ma perché questa prova, agli occhi di Levinas, diventa feconda? Perché in quella «délais de route» essi avevano impiegato il tempo «per misurare l’evento». O ancora, in quella situazione nella quale si potrebbe anche scorgere l’exemplum biblico del «Me voici», ciò che si dà, il non-detto che va esplicato, è l’evenire di una dilazione temporale. Un intervallo che per il Levinas captif, in una condizione senza mondo esteriore, di totale privazione e abbandono, di vacuità e di anticamera della morte, si dà tra l’uomo e la sua solitudine. Ma che cosa accade in questo intervallo se non quell’epoché esistenziale nella quale v’è la radicale messa in questione di me stesso? E che cosa si scopre in questa messa in questione se non quella felix culpa, quel «felice dovere di amare l’altro», in quanto fondamento ultimo della mia umanità? Una colpevolezza pre-etica e pre-morale che mi fa concludere che sono colpevole di diventare autentico. Ma tale posso divenire soltanto se decido-di-iniziare-qualcosa-con-me-stesso e se riconosco che, di fronte a me, c’è un altro. Di qui, come fa notare acutamente Casper, la ripresa levinasiana della seconda formula dell’imperativo categorico di Kant nei termini di «“Non uccidere l’Altro!” e insieme “Non lasciarlo solo nel suo essere mortale!”». Una ripresa che potremmo chiamare la trascrizione incarnata di questo imperativo se è vero che l’«io sono» si può cogliere nell’unico modo che gli è dato: ossia in quanto corporalizzato e con un tempo limitato a disposizione. Ma a che cosa mette capo l’assunzione di questa colpevolezza da sopravvissuto e ab-soluta, se non a un espropriarsi del Moi da sé, poiché «la presenza di altri fornisce la possibilità concreta di vedersi dal di fuori. Volere – scrive Levinas in un passaggio cruciale dei Carnets – è come si avesse parlato con altri»? E vedersi dal di fuori non significa forse riconoscersi, sin da subito, responsabili come nel «Faremo e poi udremo» di Esodo 24,7? Ci sembra di grande importanza il fatto che Levinas, in L’expérience juive du prisonner, nel descrivere ciò che, a ragione, Casper chiama l’inferno dello Stalag 1492, ovvero quella condizione di sottrazione totale in cui si trovavano a vivere i prigionieri, parli della «possibile conversione – prima della speranza, al fondo della disperazione – del dolore nella buona sorte; la scoperta dei segni dell’elezione nella sofferenza stessa». Ma se «la sproporzione tra la sofferenza e ogni teodicea apparve ad Auschwitz con una chiarezza che cava gli occhi», quale risposta è possibile fornire attraverso il nostro «io sono» di carne e di sangue al «non del male, negativo fino al non senso»? L’unica risposta possibile è il fatto di dover rispondere del soffrire dell’altro, che «è un patire puro», volgendo questa sofferenza inutile e scandalosa in una sofferenza non inutile o, se si vuole, liturgica. In una gratuità che è responsabilità che s’accresce e che s’incarna fino alla fissione, fino all’esposizione, fino a farsi ostaggio-con-il-proprio-corpoper- l’Altro. Al punto che l’apparente paradosso di una teofania che accade nel male del dolore patito per l’Altro, diviene sorprendentemente chiaro. Scrive Levinas: «Che nel male che mi perseguita mi colpisca il male sofferto dall’altro uomo, che esso mi tocchi, come se di colpo l’altro uomo si appellasse a me mettendo in questione il mio riposare su me stesso ed il mio conatus essendi, come se prima di lamentarmi del mio male quaggiù dovessi rispondere di altri, non vi è forse qui, nel male, nell’“intenzione” di cui in modo così esclusivo sono nel mio male il destinatario, uno sfondamento del Bene? La teofania». In questa condizione di sofferenza estrema diviene, a sua volta, chiaro il senso ultimo del farsi ostaggio che, come rivelò Levinas a Casper nel colloquio avvenuto a Parigi nel 1981 – «è forse solo un nome più forte per dire l’amore». Ostaggio per l’Altro che Bernhard Casper – quasi facendo proprio il concetto di «teologia monumentale» di Franz Xavis Kraus, docente di Patrologia e Archeologia cristiana all’Università di Friburgo, negli anni in cui Egli era giovane assistente del suo maestro Bernhard Welte e insieme servendosi di un’ermeneutica filosofica delle relazioni umane – vede espresso e temporalizzato nella storia dell’arte nel «quadro di Vincenzo Civerchio in cui, dalla profondità del suo punto centrale, un volto ci prega di riconoscere questo stesso volto in ogni volto umano». Quel volto orante e che registra soltanto la compassione di un cavallo – simile a quella che mostrò, nella solitudine del campo, Bobby, «il cane che ci ama senza riserve» – è il volto del Cristo, che barcolla sotto la sua croce. Lasciato solo e ormai vicino all’ora nona, sembra raccomandare ancora, e nonostante tutto, l’Amore per l’Altro in un concorrere di ciascuno alla salvezza che, nel «ritorno alla condizione di servi di Dio […] unisce ebrei e cristiani, nel profondo di entrambe le esperienze di Dio che sono loro proprie».
F.N.