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Remo Bodei
A cura di: Francesca Nodari

Attese di felicità

Granelli/Filosofi lungo l’Oglio – 3

INSTANT BOOK

5.00

Categoria:
Collana: Granelli/Filosofi lungo l'Oglio - 3
Formato: 110x155x4 mm - pp. 48 - copertina semirigida
Edizione: 2011
ISBN: 978-88-8486-485-7
Product ID: 2654

Descrizione

Chi può negare di attendere la felicità? Chi non spera in essa o chi può dire di non averne mai fatto esperienza? In questo testo penetrante e accattivante, Remo Bodei cerca di chiarire quale sia la posta in gioco di un tale sperare muovendo da una tradizione filosofica, religiosa, letteraria che considera vane le attese di felicità.
Dall’Edipo re di Sofocle al Qoèlet biblico a Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer la felicità emerge come illusoria, vana, tanto da perdersi in quella catena senza fine di desideri che si susseguono l’uno dopo l’altro e che spingono l’uomo, mendicante della quotidiana elemosina, a tendere la nuda mano in attesa di un altro appagamento attraverso una richiesta insistente che prova, di fatto, la sua caducità e la sua pochezza.
Ma, come mostra l’Autore, la nostra esistenza non può essere intesa come mera cifra dell’infelicità. Certo la felicità non la si può ottenere a comando e neppure la si deve inseguire spasmodicamente, se è vero come dice Cechov che essa «è una ricompensa che giunge a chi non l’ha cercata».
Forse occorre cominciare a conoscere se stessi, incontrare quell’io straniero che abita dentro di noi senza mai averlo prima incrociato. Offrirgli pane. Offrirgli vino. Sedere con lui – come scrive il Premio Nobel caraibico Derek Walcott in Love after love – per amare lo straniero che è in noi e riconoscere che non siamo altro che «nodi di relazione», singoli fili di una lunga catena a partire dalla quale abbiamo costruito e continuiamo a costruire noi stessi.
Felicità è dunque «sbucciare» la patina narcisistica del nostro io – «disincrostarlo» – per sedere «al banchetto della vita» e «alzarci non dico sazi, però almeno riconoscenti». Festeggiare significa uscire dal proprio io limitato e, a tratti, superbo, monadico per aprire le proprie porte e le proprie finestre agli altri e riconoscere la natura plurale che ci costituisce.
Se, infatti, da Socrate a Seneca le tecniche per perseguire la felicità si rinvenivano nell’amore della conoscenza, nel mantenere la tranquillità d’animo, nel praticare i piaceri con moderazione e nell’essere temperanti; con l’età moderna, la filosofia ha cessato di offrire indicazioni per ottenere la felicità tendendo lo sguardo non più verso l’alto, ma in avanti alla conquista del potere e della conoscenza. Eternità e felicità sono divenuti sinonimi: al di fuori del tempo, tradiscono una pienezza di vita che può darsi anche solo per un attimo. Un attimo di piena durata. Un attimo da vivere qui ed ora in questo nostro mondo che ha cessato di essere una «valle di lacrime», per divenire una «casa avita che si deve trasmettere più bella ed ospitale ai pronipoti». Oggi, conclusasi la fase storica in cui la politica poteva considerarsi detentrice di una funzione salvifica, la percezione di incertezza che pervade ognuno, il pericoloso divario tra felicità individuale e felicità collettiva, quel senso di declino che attanaglia il vecchio mondo, porta inevitabilmente ad una contrazione delle speranze e delle attese. Di più, ad una preoccupante desertificazione del nostro futuro. La fuga non è in avanti, ma nel presente. Dinnanzi ad un tale stato di cose, il grande tema dell’identità torna ad occupare la scena dei nostri destini personali e della nostra contemporaneità.
Sembra chiaro che, nel nostro tempo, la tecnica per aspirare ad una felicità, sia pure fragile, sia pure effimera non possa che risiedere in questo riconoscerci come natura plurale. Solo così l’attesa di una felicità di là da venire potrà acquisire una densità, abitare un luogo, divenire concreta nella condivisione della relazione.
F.N.