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Mauro Corradini

Lo sguardo interiore

Compendio di Storia dell’Arte dalle Avanguardie Storiche all’Informale

18.00

Categoria:
Collana: L.A.B.A. Quaderni dell'Accademia NUMERO
Introduzione: Mauro Corradini
Formato: 165x240x10 mm - pp. 152 - copertina con plastificazione opaca
Edizione: 2010
ISBN: 978-88-8486-441-3
Product ID: 2583

Descrizione

“Il riconoscimento che tutto il fuori-di-noi si risolve in un dentro-di-noi, che ha senso ragionevole parlare di una realtà solo in quanto essa appare alla nostra coscienza, distrugge l’illusione che sia necessario conquistare propriamente un mondo che sta di fronte a noi, intorno a noi, con gli organi del nostro corpo, per possederlo. E con esso ci rendiamo conto che ogni realtà viene conosciuta soltanto in quei processi che si compiono in noi e per mezzo nostro, di cui supponiamo gli inizi nelle sensazioni e di cui cogliamo i risultati quando si sviluppano in forme determinate”: siamo al giro di boa del cruciale ultimo decennio dell’Ottocento. Riflettendo sul senso dell’essere dell’arte, Konrad Fiedler, pubblica nel 1887 il suo saggio Sull’origine dell’attività artistica, con cui chiarisce in forme precise il significato della rivoluzione da cui occorre partire. Nasce quella che possiamo definire “arte contemporanea”, nel senso proprio del termine: contemporanea, in quanto attiva ancor oggi per noi e in noi. Tale percorso, con una necessaria dose di convenzione nei confronti della cronologia, evitando le distinzioni e le puntualizzazioni sui precorrimenti, si fa iniziare con il Novecento, con la nascita delle avanguardie storiche e si fa concludere, almeno in parte, alla fine del primo decennio del secondo dopoguerra, all’alba cioè delle neo avanguardie che scardineranno in forme più radicali il concetto stesso di arte (e il sistema arte).
L’avvio del primo Novecento si attua dunque nell’ottica di un cambiamento del “punto di vista”, dal “fuori-di-noi” al “dentro-di-noi” (da cui il nostro titolo Lo sguardo interiore); cui segue di necessità un sostanziale mutamento della prospettiva estetica, dell’essere stesso dell’opera d’arte. Il nuovo fa la sua comparsa in forme razionalmente espresse nelle ultime pagine del ciclo sulla recherche con cui Marcel Proust apre idealmente il secolo nuovo, accentrando tutto il suo progetto sul tema del tempo, tempo perduto, tempo in noi, tempo ritrovato: “Mi sgomentava l’idea che i miei [anni] fossero già così alti sotto i miei passi, mi pareva che non avrei avuto la forza di tenere ancora a lungo avvinto a me quel passato che discendeva già così lontano, e che io portavo in me così dolorosamente! Se almeno si fosse lasciato abbastanza tempo per compiere la mia opera! Non avrei mancato di segnarla col sigillo del Tempo”. La coscienza di Marcel Proust apre (tra il 1908 e il 1922) il nuovo secolo e contemporaneamente dà inizio ad una cifra dell’arte, indicando con chiarezza lo spazio autobiografico che la cultura aveva intravisto, ma non sperimentato appieno, da almeno cinquant’anni.
Ci voleva un passaggio temporale, spirituale, complesso e straordinario, per giungere alle poetiche che di fatto il Novecento inaugura, nello stesso tempo in cui definisce gli ambiti dell’arte. Il senso di un’arte che scruta nel soggetto parlante e si risolve in una sostanziale “autobiografia” compare già in Charles Baudelaire, almeno nella parte terminale della sua alta riflessione. Lo sottolinea in Italia acutamente Franco Rella, analizzando le opere del grande poeta. In Baudelaire compare la nuova strada, quando il poeta esprime l’impossibilità di mantenere intatti i generi, gli schemi e i moduli espressivi, dal momento che “gli artifici del ritmo sono un ostacolo insormontabile a quello sviluppo minuzioso di pensiero e di espressioni”. Siamo ancora nel 1857, è appena uscita la II edizione de I fiori del male, e già il poeta ne avverte i limiti. Di lì a poco, riflettendo sull’immaginazione, “la regina delle facoltà”, proprio in concomitanza con le sue attente analisi sull’arte moderna (le celebri note sul Salon 1859), giunge a ipotizzare un’uscita definitiva dagli schemi della tradizione; scardina cioè l’accademia (poetica) ben prima dello scardinamento che gli impressionisti compiranno in campo pittorico dell’accademia artistica. E presentando il suo Spleen con una dedica all’editore (1861), il poeta indica che l’arte deve mutare, chiarisce con lucida intuizione che la descrizione di stampo tradizionale non basta più, ma occorre “il miracolo di una prosa poetica, musicale senza il ritmo e la rima, tanto mutevole e precisa da adattarsi ai movimenti lirici dell’anima, alle oscillazioni della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza”.
I contributi dello studioso italiano Franco Rella, posti sul crinale tra poesia e indagine poetica, ci aiutano a chiarire il salto che si compie negli anni iniziali del Novecento, quando, rotti gli indugi, l’arte tenta le strade che per convenzione continuiamo a definire “avanguardie”, interpretabili come risposte ai problemi nuovi che lo spostamento d’asse “dall’oggetto verso il soggetto” ha determinato. Il termine avanguardia, da mantenersi per necessità di nomenclatura, va necessariamente modificato nel significato: non solo rottura e balzo nel vuoto (forse solo il dadaismo compie scientemente questo salto), ma tentativo di ritrovare quella lingua che potesse esprimere la nuova dimensione dello spirito che prepotentemente veniva emergendo. Le avanguardie sono la risposta all’oggettiva insufficienza della lingua tradizionale e alla necessità di trovare una lingua consona ai drammi del tempo: “lasciare che questa terra provvisoria e caduca si imprima nel nostro animo in maniera così dolorosa e appassionata, che la sua essenza risorga invisibile in noi”, scrive Rilke. Il poeta, che nelle sue Elegie esprime che “non c’è più luogo alcuno per stare”, riecheggiando un tema romantico caro all’Iperione di Holderlin (“Ma a noi non è dato / in nessun luogo posare”), apre la contemporaneità con quel rinvio all’invisibile, che è ad un tempo il mistero individuale e la psiche, il mondo ctonio e la bellezza interiore.
Sul doppio registro del tempo e dell’autobiografia, dell’invisibile e dell’io che si svela per intuizioni e bagliori, si giocano i temi e i termini di una nuova realtà spirituale. Che il Novecento persegue, con sfrontatezza e ripiegamenti, come accade per ogni accostamento al nuovo e ai luoghi magici e diversi della poesia, incapace probabilmente di verità e certezza, ma altrettanto incapace di arrendersi e non cercare: “codesto solo oggi possiamo dirti …” dice sconsolato Montale, quando rivolgendosi al lettore implora (o grida e implora?) di “non chiederci la parola”. In fondo, l’immagine di Cézanne che si domanda se avrebbe mai potuto raggiungere la “terra promessa” in quella sua straordinaria ricerca, che è religione e sofferenza, in cui si consuma umanamente perdendo le forze fisiche e la mente, sta il sale segreto di una parte dell’arte di un secolo, ricco quant’altri mai. Con la postilla conclusiva, accademica se vogliamo, ma necessaria: la storiografia ha definito, probabilmente a ragione, riflettendo su alcuni eventi epocali (dalla fine degli Imperi Europei alla fine dell’Impero Sovietico), il Novecento “secolo breve”, limitandolo e racchiudendolo tra il 1914-18 e il 1991; nell’ambito della storia dell’arte, il nostro è stato al contrario un “secolo lungo”, perché prende avvio nei primissimi anni del secolo (ma non sbaglierebbe troppo chi volesse anticipare all’ultimo decennio dell’Ottocento le coordinate di quel Die Moderne, che la lingua tedesca utilizza per indicare i fenomeni artistici che hanno già i caratteri propri del tempo che abbiamo attraversato), e certamente non termina nell’ultimo decennio, quando un evento politico porta alla riapertura dei contatti con il mondo dell’Est (politico) europeo.